La prima e unica volta che ho incontrato Toto Cutugno è stato nel suo studio di registrazione, a Milano. Era il 2018, gli facevo un’intervista video per la rubrica Italian Folgorati su «Vice»: a organizzare la cosa non fu un’agenzia o un manager, ma proprio il figlio di Toto, Nico, che mi contattò personalmente. Fu un rendez-vous molto rilassato e, allo stesso tempo, emozionante. Toto fu gentilissimo e insieme suonammo una delle sue canzoni più intense, Il tempo se ne va. Prima che andassi via mi fece una dedica molto sincera su un suo cd dicendomi: «Non perdiamoci di vista». Gli anni che seguirono furono piuttosto complicati per Toto, tra pandemia e problemi di salute: durante questo periodo, con Nico siamo rimasti in contatto, dividendosi lui tra la madunina e il Colosseo. Ovviamente poi è successo quel che è successo, Toto non è più con noi e ha lasciato un evidente vuoto. Che però Nico, anche lui musicista, che si occupa di multimedialità, con grande determinazione e coraggio, è deciso a colmare riprendendo in mano l’eredità artistica del padre, in particolare quella che era il suo prolungamento, ovvero lo studio dove ci siamo incontrati, lo Studio Bach. In questa chiacchierata parliamo della sua storia, del modus operandi di Toto e di quello che potrà essere il futuro dello studio, in nome della musica dell’italiano per antonomasia.

Ciao Nico, tutto bene? Sei a Milano in questo momento?

Sì, sarei dovuto andare a Roma a fine ottobre e sarebbe stato bello fare l’intervista dal vivo, solo che per il 29 mi ha chiamato il patron del premio Lunezia. La manifestazione si tiene a La Spezia, dove papà è cresciuto e volevano dargli un premio… mi hanno chiesto se potevo andare io a ritirarlo e quindi ho dovuto rimandare la discesa a Roma.

Quindi un premio alla carriera? 

Sì, praticamente sì.

Be’ il premio Lunezia è piuttosto conosciuto, hanno anche premiato i Pooh tempo fa… e mi pare che per Toto non era la prima volta.

Sì, poi è carino perché… all’inizio mi avevano chiesto se potevo suonare un pezzo di papà, ma io gli ho risposto di no, assolutamente… Nel senso che io vado là, rappresento mio padre ma non l’artista. Alla fine le sue canzoni parlano da sole, non servo io a ricantarle: così suonerò questo brano che ho scritto io, uno dei primi per papà, in cui immagino di parlargli. Allo stesso modo non sono il biografo di papà: la cosa interessante è quello che è rimasto a me come osservatore diretto, quello che ho vissuto io.

Be’ almeno lo hanno già premiato in vita, ci sono tante manifestazioni che avrebbero dovuto rendergli il giusto tributo da vivo e invece…

SÌ, figurati… lasciamo stare.

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